Recensione a cura di Francesca Mari
Lieve come una carezza e diretto come un cazzotto in faccia, il romanzo «Ricciola di mare» si divora tutto d’un fiato. Lo stile narrativo intreccia la descrizione bucolica dei luoghi dell’infanzia, loci amoeni del paese all’ombra del Vesuvio in cui sembra risiedere la serenità, a quella più fotografica e veristica dei luoghi del presente, della quotidianità “robotica” delle grandi città. Ed è in questo contesto asettico, proprio nel freddo abitacolo dell’ascensore di un grattacielo che d’improvviso si blocca, che la protagonista Ricciola, avvocato penalista di successo ma anche anello di un ingranaggio sterile, comincia a fare i conti con se stessa e con la propria interiorità frammentata. Parte, così, il romanzo psicologico a tratti noir che si snoda in una narrazione fluida e incalzante tra passato e presente, fuori e dentro l’Io. Come Vitangelo Moscarda di Luigi Pirandello, è proprio avvertendo la sua immagine riflessa nello specchio dell’ascensore, quell’immagine che ha sempre eluso, che Ricciola inizia un viaggio burrascoso nel buco nero del suo inconscio. Una, nessuna o centomila: chi è lei? Ma oltre a scandagliare l’Io, l’Es, e il Super-io l’autrice va oltre. Affonda la lama nell’evoluzione biologica della protagonista, nel suo DNA, tra conflitti e redenzioni. Così tutti i personaggi, donne e uomini, che sfilano nel racconto sembrano rappresentare le tessere di un mosaico il cui risultato è Ricciola. Ma è un mosaico che non funziona, provoca dolore. Lei è ora le frustrazioni delle donne della sua famiglia del Sud, da diverse generazioni (da nonna Lina a mamma Imma), ma anche l’anelito alla libertà e la ribellione di zia Matilde figlia del sessantottismo. È da una parte il lenzuolo ricamato e poi squarciato dall’ignoranza patriarcale di nonni e zii, ma anche il «bucaneve», il fiore della speranza, per quegli uomini come il padre Pasquale e il marito Gigi che rappresentano le sue ancore di salvataggio. Perché «Ricciola di mare» sebbene scandagli l’anima femminile, non è un romanzo femminista. Gli uomini, descritti con profondità, sono essenziali al percorso della protagonista, tant’è vero che parte tutto proprio dalla crisi con suo marito, dalla spasmodica iperattività di lei, dall’approccio bulimico al lavoro e alla vita pur di non vedere la Verità. Ricciola si è fatta largo in una società retrograda del Sud, in cui, nonostante le ideologie e le sovrastrutture, è riuscita a diventare una donna in carriera e fedele alle proprie idee. Ma a un certo punto questo non basta più. C’è un vuoto atavico da colmare e può farlo soltanto attraverso un viaggio doloroso nell’abisso della sua anima. Così, la narrazione con piglio cronistico e conciso percorre quasi un secolo di storia e società, dal secondo dopoguerra ad oggi, epoche di cui i protagonisti sono figli. Di sfondo Torre del Greco, con le contraddizioni tra il bene e il male, le distese di ginestre sulla rude roccia lavica tanto cara al Leopardi, il lavoro faticoso del corallo per gli operai, la marineria, la chiusura delle rupi, l’apertura verso il mare. Così Milano e Napoli, le due grandi città tra presente e passato. E lungo il racconto dell’Io, temi delicati come la violenza sulle donne, la prostituzione e la maternità. Ma, nemmeno la maternità redime Ricciola: il suo unico figlio maschio Andrea è il ricongiungimento con il suo DNA, non è solo un figlio biologico ma l’espressione di una genitorialitá profonda e consapevole. Ma i suoi sensi di colpa impediscono a Ricciola di vivere appieno quella maternità tanto agognata. Non potrà permettere che suo figlio paghi le sue colpe, lo deve a lui, deve capire. Dovrà tornare nel locus amoenus della sua infanzia per scoprire verità ignorate o rimosse, sotterrata nelle anguste insenature di pietra lavica per poter ricomporre il mosaico. Ma la Veritá costa sempre sangue e sudore e Ricciola quel mosaico dovrà scagliarlo per terra e romperlo in mille pezzi. Soltanto dopo potrà raccogliere i pezzi e ricomporlo, e le cesure non faranno più male perché saranno «cicatrici e non ferite». Il romanzo, con uno stile ora raffinato ora nudo e crudo, si presenta avvincente e risolto nell’epilogo.
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